Coronavirus, quante attività rischiano di sparire dal mercato secondo Confcommercio


Articolo
Giulia Palocci
attività

La fase 2 è iniziata da oltre una settimana e si continuano fare i conti con le ripercussioni economiche che la pandemia e il lockdown hanno avuto – e continuano ad avere – sul tessuto economico e produttivo dell’Italia. L’allarme, questa volta, arriva da Confcommercio, la confederazione italiana che rappresenta oltre 700.000 imprese, secondo cui rischiano di dover abbassare definitivamente le saracinesche oltre 267.000 aziende. Sempre se entro ottobre le condizioni economiche non dovessero mostrare segni di miglioramento con una piena apertura di tutte le attività.

Dall’analisi emerge “una stima prudenziale che potrebbe essere anche più elevata“, hanno specificato gli analisti dell’Ufficio studi dell’associazione. E questo perché la totale sospensione di alcune attività non è l’unica determinante del possibile scenario. A pesare potrebbero essere da un lato la totale assenza di domanda che ha riguardato nello specifico alcuni settori e dall’altro “l’elevata incidenza dei costi fissi sui costi di esercizio totali che, per alcune imprese, arriva a sfiorare il 54%“. Si tratta in pratica di fattori che incombono anche sulle attività non sottoposte al lockdown degli ultimi mesi.

Su un totale di oltre 2,7 milioni di imprese del commercio al dettaglio non alimentare, dell’ingrosso e dei servizi, quasi il 10% è, dunque, soggetto a una potenziale chiusura definitiva“. Nello specifico, tra i settori più colpiti ci sarebbe quello degli ambulanti (soprattutto di beni non alimentari) in cui, su un totale di oltre 83.000 imprese, ben 24.344 sarebbero a rischio chiusura quest’anno. In pratica il 29,2% del totale. Seguono le attività di ristorazione, quindi bar e ristoranti, che rischierebbero invece una perdita di oltre 45.000 aziende, ossia il 16,2% del totale, e i negozi di abbigliamento e calzature per cui la perdita stimata sarebbe del 16,1% (qui un nostro articolo sul rallentamento del settore moda). E ancora le imprese legate alle attività artistiche, sportive e di intrattenimento e quelle legate alla cura della persona. Rispettivamente, le conseguenze più estreme della pandemia si abbatterebbero sul 14,4 e sul 13,8%. “Mentre, in assoluto” prosegue la nota “le perdite più consistenti si registrerebbero tra le professioni (-49.000 attività) e la ristorazione (-45.000 imprese)“.

Se guardiamo, invece, alle dimensioni aziendali, l’analisi dell’associazione evidenzia perdite significative per il segmento delle micro-imprese, quelle con un solo addetto e senza dipendenti. In base all’ultimo censimento condotto da Istat-ASIA nel 2017, parliamo di oltre 174.000 unità produttive tra dettaglio in sede fissa e ambulanti. Secondo i dati contenuti nell’indagine, “per queste strutture, che presentano un’incidenza dei costi fissi intorno al 15%, la sola riduzione del 10% dei ricavi potrebbe portarle al di sotto della già modesta soglia di sopravvivenza reddituale e a dover cessare l’attività“.

Infine, l’Ufficio studi ha sottolineato che “si tratta di stime che incorporano un rischio di mortalità delle imprese superiore al normale per tener conto del deterioramento del contesto economico, degli effetti della sospensione più o meno prolungata dell’attività, della maggiore presenza di ditte individuali all’interno di ciascun settore e del crollo dei consumi delle famiglie“.

TABELLA UFFICIO STUDI CONFCOMMERCIO

Ufficio stampa e Comunicazione dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Nata a Roma nel 1992, Giulia Palocci si è laureata con il voto di 110 e lode in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’università Luiss Guido Carli con una tesi sul contrasto al finanziamento del terrorismo nei Paesi del Sud-est asiatico.

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