La pandemia di Covid-19 ha causato una crisi economica con effetti significativi sul mercato del lavoro tanto che nella maggior parte dei Paesi Ocse, Italia compresa, il tasso di disoccupazione è aumentato per tutti i livelli di istruzione. Anche in questo caso i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) rappresentano un’imperdibile occasione non solo per risanare i danni causati dalla pandemia ma anche per colmare le lacune che frenano da tempo lo sviluppo e la crescita del Paese.
Nel Pnrr sembra farsi largo la consapevolezza che senza il capitale umano non si potranno concretizzare gli effetti delle strategie messe in campo per trainare il nostro sistema economico (e il mercato del lavoro) e che la riduzione delle disuguaglianze nell’accesso all’istruzione è un punto cardine da cui ripartire. In particolar modo la Missione 4 “Istruzione e ricerca” mira a rafforzare le condizioni per lo sviluppo di una economia ad alta intensità di conoscenza proprio a partire dal superamento delle criticità del nostro sistema e ben si accompagna alle politiche attive del lavoro, anch’esse inserite nel Piano.
All’inizio del 2020 l’interruzione delle catene di approvvigionamento internazionali ha portato a un grave shock dal lato dell’offerta e allo stesso tempo l’economia è stata colpita da uno calo della domanda, perché il reddito disponibile si è ridotto per molti lavoratori. Secondo l’OCSE, i Paesi più colpiti sono stati quelli con i livelli più bassi di protezione dell’occupazione, dove i tassi di disoccupazione sono saliti alle stelle entro poche settimane. Un fenomeno che in parte si è verificato anche in Italia, dove il rapporto tra il numero di persone senza un’occupazione e il totale della forza lavoro e ha iniziato ad aumentare nel mese di maggio 2020 fino ad arrivare al 10,5% a gennaio 2021 e ancora al 10,7% ad aprile: un livello che non si registrava dalla fine del 2018.
Una forte criticità legata alle dinamiche del mercato del lavoro nel nostro Paese è rappresentata dall’alto tasso di abbandoni precoci dei percorsi di istruzione, che si associa a rischi di esclusione dal mercato del lavoro. Secondo l’Istat, si tratta di una dinamica che coinvolge oltre mezzo milione di giovani con un’età compresa tra i 18 e i 24 anni con al massimo la licenza media. Sotto questo profilo, il tasso di occupazione è inferiore di quasi 10 punti rispetto a quello degli europei nella stessa condizione. Inoltre, con il 25,5% di persone dai 15 ai 29 anni inattive (i cosiddetti NEET “not in education employment or training”), l’Italia rimane al primo posto nelle statistiche sulla disoccupazione giovanile dell’Unione europea. La percentuale di giovani adulti in questa condizione è aumentata ancora dell’1,3% tra il 2019 e il 2020 e si conferma essere una tra le più alte anche tra i Paesi OCSE. Le analisi confermano, inoltre, che le condizioni del contesto socio-economico e familiare di appartenenza influiscono sulla probabilità di trovarsi in questa condizione.
Nel 2013 Thomas Piketty spiegava nel suo libro “Il capitale nel XXI secolo” che la disuguaglianza è uno dei maggiori problemi delle economie moderne. Uno dei meccanismi più importanti che riproducono le disuguaglianze è proprio l’istruzione e, in particolar modo, l’accesso al mondo universitario come opportunità di mobilità sociale. Le scelte di istruzione hanno dirette conseguenze sul futuro status occupazionale degli individui, sulle loro opportunità di guadagno e, infine, sulla produttività totale dei fattori, che sintetizza la capacità di crescita di un’economia. A ciò si aggiunge che l’Italia già registrava una stanca evoluzione della produttività totale dei fattori: una sintesi di quanto si riesce a produrre in un certo periodo di tempo utilizzando al meglio le risorse disponibili. L’Istat ha concluso che nel periodo che va dal 1995 al 2019 l’aumento del valore aggiunto (0,7% medio annuo) è da imputare quasi esclusivamente all’accumulazione di capitale e solo in piccola parte al fattore lavoro. Inoltre, l’apporto del capitale è dovuto quasi esclusivamente alla componente materiale non-ICT, mentre il contributo alla crescita della componente ICT e di quella immateriale non ICT è risultato minimo.
Puntare sul capitale umano, sulle competenze e sulla formazione dei più giovani è, quindi, proprio il punto da cui ripartire, riducendo le disuguaglianze di accesso all’istruzione da un lato e investendo nella formazione continua del capitale umano dall’altro. Questo sembra essere stato recepito in modo trasversale all’interno del Pnrr, che in ogni sua componente punta anche a sanare il gap di competenze alla base del divario digitale. La missione esplicitamente dedicata è però la Missione 4 che dedica al sistema di istruzione, formazione e ricerca circa 31 miliardi di euro.
All’interno degli investimenti previsti è interessante notare come il piano punti sull’orientamento attivo nella transizione scuola-università per aumentare il numero di laureati. Proprio la riduzione di quel gap di informazione disponibile a ragazzi che provengono da diversi background socio-economici può ridurre il divario nelle opportunità di accesso all’università. E ancora si prevede di investire nelle strutture residenziali per gli studenti fuori sede, ampliando la platea dei beneficiari delle borse di studio e aumentandone l’importo. Obiettivi e fondi dunque non mancano per rimettere la persona al centro del Sistema Paese e ogni missione del piano è permeata dalla consapevolezza che le competenze immateriali devono essere alla base di un rinnovato processo di formazione del capitale umano, volano per la crescita di domani.
A questo ben si lega la nuova impostazione delle politiche attive del lavoro inserita nel Pnrr e qualificata come riforma di sistema, con un orizzonte temporale che è quello del Next Generation Eu (2021-2025). Che essa si accompagni a una riduzione del cuneo fiscale sul lavoro che in Italia è di cinque punti superiore rispetto a quello degli altri Paesi europei e di undici punti rispetto alla media Ocse, è infine una necessità vitale.