Nella nuova legge di bilancio sono state previste alcune disposizioni finalizzate a favorire il reshoring, ossia il rientro di attività produttive in Italia: il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) ha annunciato un abbattimento del 50% delle imposte per le imprese che decidono di riportare in Italia la propria produzione da un paese estero, purché l’attività sia stata precedentemente svolta in un paese che non rientra nell’UE o nello Spazio Economico Europeo.
Questa misura è finalizzata a garantire che le aziende che usufruiscono degli incentivi mantengano un impegno a lungo termine per la produzione in Italia, contribuendo così alla crescita economica e all’occupazione nel paese. Tale strumento potrebbe essere ulteriormente rafforzato con un intervento da parte delle regioni, le quali potrebbero a loro volta avviare programmi di questo tipo per attrarre investimenti e “far rientrare” aziende sul territorio regionale.
Tale discorso si inserisce e trae vantaggio nella tendenza registrata negli ultimi anni, nei quali molte aziende hanno gradualmente constatato che i vantaggi iniziali della localizzazione all’estero stanno perdendo di rilevanza, spingendole a rivedere e invertire le strategie di localizzazione precedentemente adottate. Secondo il Centro Studi Confindustria, su un campione di aziende intervistate, il 15,9% ha spostato in parte o totalmente la propria produzione all’estero, ma circa il 28,8% sta considerando di riportare in Italia la propria produzione. Il fattore chiave che ha spinto queste imprese a riconsiderare la delocalizzazione e a riportare in Italia i processi produttivi riguarda gli stessi aspetti che in passato avevano indotto la scelta della delocalizzazione, ovvero l’efficienza (tempi di consegna effettivi rispetto a quelli previsti, costi del lavoro effettivi, altri costi di produzione e costi logistici effettivi rispetto a quelli previsti). Questi cambiamenti di contesto nel periodo considerato hanno quindi motivato un riorientamento verso l’interno, sottolineando l’importanza di creare un ambiente attraente per gli investimenti in Italia e di sfruttare le opportunità di riportare la produzione nel paese.
Produzione delle aziende italiane
La struttura delle imprese che hanno implementato il fenomeno del “backshoring” produttivo manifesta una notevole concentrazione geografica. Si riscontra che il 40% di tali imprese ha sede in Lombardia, il 25% in Campania e, infine, il 15% in Emilia-Romagna.
Inoltre, tra il 2016 e il 2020 del 74,5% che aveva una fornitura all’estero il 21% ha deciso di riportare parzialmente o totalmente la propria fornitura in Italia. La ragione principale che ha spinto queste imprese a riportare le catene di fornitura sul suolo nazionale è stata la disponibilità di fornitori competenti in Italia. Questo risultato evidenzia chiaramente che l’expertise e il know-how italiano continuano a costituire il principale valore aggiunto per le filiere locali, sottolineando l’importanza degli investimenti in queste competenze e capacità nel contesto industriale italiano.
Fornitura delle aziende italiane
Il backshoring delle imprese italiane sembrerebbe quindi scaturire da una scelta strategica non solo a monte, ma anche a valle. I risultati dell’analisi condotta da Confindustria evidenziano un effetto positivo del backshoring di fornitura sulle performance delle imprese. In particolare, le aziende che stanno aumentando il numero di fornitori italiani locali, rispetto a quelle che invece li stanno riducendo, presentano una maggiore probabilità di prevedere, entro il 2024, un aumento annuale della produzione (con una probabilità superiore al 26%), del fatturato (con un aumento previsto del 21%) e delle esportazioni (con un incremento previsto del 29%). Questi risultati non sorprendono, dato che l’effetto del backshoring di fornitura ha un impatto significativo sulle performance delle esportazioni. Questo è dovuto al fatto che la strategia di rilocalizzazione della fornitura è strettamente legata al Made in Italy e alla qualità dei prodotti. Questi fattori sono cruciali per la competitività internazionale dei prodotti italiani, e pertanto il reinserimento di fornitori locali contribuisce a rafforzare la percezione di qualità e il valore dei prodotti italiani sui mercati internazionali.
SETTORE FARMACEUTICO
In questo contesto, una particolare attenzione va dedicata al settore farmaceutico, ritenuto strategico non solo per l’importante innesto finanziario, ma anche per il ruolo sociale che svolge. Anche il MIMIT, nelle direttive su competitività e resilienza delle filiere produttive, ha individuato il farmaceutico tra le filiere strategiche per lo sviluppo del sistema Paese.
Dallo schema della supply chain farmaceutica emerge chiaramente la dipendenza indiretta dell’Unione Europea da paesi al di fuori dell’UE per quanto riguarda gli “starting materials” (materie prime iniziali) e i “prodotti intermedi” (prodotti semilavorati), spesso oggetto di trasformazione. Questi materiali vengono importati principalmente da due giganti asiatici, ossia la Cina e l’India, che rivestono un ruolo cruciale nell’industria farmaceutica. Questa dipendenza dalla fornitura di materie prime farmaceutiche da paesi extra-UE pone l’Unione Europea e le sue industrie farmaceutiche di fronte a sfide e rischi in termini di sicurezza dell’approvvigionamento, qualità e controllo regolatorio. Per l’Italia, l’esercizio condotto da I-Com dimostra che circa il 14% dei prodotti analizzati (155 prodotti farmaceutici) presenta un elevato grado di dipendenza da fonti estere (extra UE). Tali prodotti, tuttavia, rappresentano circa il 13% del valore dell’import italiano del settore, segnalando elementi di criticità che richiedono adeguate misure correttive volte ad accrescere l’attrattività del nostro Paese. Va notato che, nonostante l’import sia altamente concentrato in pochi fornitori extraeuropei, a livello globale potrebbero esistere altri fornitori significativi per gli stessi prodotti, dai quali l’Italia non importa o importa quantità minime. Questo processo mira quindi a ridurre la quota detenuta dai principali esportatori in Italia a favore di quelli meno rilevanti o ad oggi assenti, al fine di allargare la base dei potenziali paesi fornitori e ridurre il rischio di interruzioni nella catena di approvvigionamento. Nel caso della filiera della salute, la riduzione della concentrazione delle forniture potrebbe essere di circa il 30%, presumibilmente dovuta alla concentrazione dei principi attivi e alle regolamentazioni stringenti che limitano la gamma di potenziali fornitori in questo settore.
Dipendenza dall’estero di principi attivi
Fonte: Elaborazione I-Com su dati Eurostat
L’accorciamento geografico delle catene produttive e il raggiungimento dell’autonomia strategia contribuirebbero inoltre a far fronte al fenomeno sempre più crescente della carenza di medicinali e di strozzature negli approvvigionamenti di principi attivi, riportato all’attenzione delle istituzioni e dei diversi portatori di interesse. Ad oggi in Italia, stando all’ultimo aggiornamento dell’Agenzia Italiana del Farmaco, sono carenti oltre 3.000 medicinali a causa soprattutto di problemi produttivi e delle forniture discontinue di materie prime. Questo perché molte produzioni di principi attivi e di prodotti finiti si sono spostate fuori dai confini nazionali e dell’Unione Europea, rendendo, di fatto, specie quest’ultima molto più dipendente di prima. Fornendo maggiori dettagli, oltre il 74% dei principi attivi di uso più consolidato in Europa dipende, direttamente o indirettamente, da produzioni localizzate in Cina o in India e il 45% dei farmaci commercializzati nel Vecchio Continente è prodotto fuori dall’UE. Anche i dati in riferimento al contesto nazionale mostrano, in alcuni casi, un elevato grado di dipendenza per alcune specialità medicinali, presentando, pertanto degli elementi di criticità che necessitano di adeguate misure correttive volte a rafforzare l’autonomia del nostro sistema Paese e ridurre le distanze delle varie fasi della supply chain. L’importazione di principi attivi con elevato indice di concentrazione può diventare un grave problema e mettere a rischio le catene di approvvigionamento dell’industria farmaceutica nonché causare ripercussioni sulla salute della popolazione, specie in presenza di diversi fattori, come crisi economiche o geopolitiche, aumento dell’inflazione, emergenza sanitaria ed elevata richiesta di prodotti farmaceutici legata alla stagionalità.
In virtù di tali considerazioni, sarebbe fondamentale promuovere il “backshoring” o “nearshoring”, ovvero il riportare la produzione e la fornitura nei confini territoriali, in modo da incentivare lo svolgimento dell’intero processo produttivo – in particolare le fasi a maggior valore aggiunto – nei confini regionali. Tale strategia deve essere focalizzata soprattutto sui produttori di principi attivi, in modo da rafforzare anche l’autonomia strategica della regione e del paese. Qualora ciò sia fattibile e praticabile, dovrebbe essere sostenuto da politiche mirate per rendere questa transizione economicamente vantaggiosa.
È essenziale sottolineare che l’implementazione di tali politiche di backshoring di produzione comporta costi significativamente elevati per le imprese che decidono di adottarlo. Questi costi includono sia costi fissi che non possono essere recuperati, noti come “sunk cost”, sia la perdita di investimenti specifici. Di conseguenza, in modo da renderli realmente fattibili e praticabili, diventa ancora più cruciale incentivare le imprese italiane nel riportare la produzione nei confini nazionali, in modo parziale o totale, attraverso incentivi fiscali, e agevolazioni di natura regionale, ma soprattutto nazionale.
Queste misure dovrebbero essere parte di un approccio strategico a lungo termine per rafforzare la resilienza e la sostenibilità dell’industria farmaceutica in Italia.