Ricerca e innovazione, l’Europa tra punti di forza e di debolezza. Aspettando il nuovo Programma quadro


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Giusy Massaro
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Alla vigilia dell’approvazione del nuovo Programma Quadro – il 9° della serie – prevista per il prossimo anno (per poi essere lanciato nel 2021), è lecito domandarsi come appaia il sistema di ricerca e innovazione in Europa (qui il rapporto Gtipa 2019).  Argomento chiave di cui si è discusso lo scorso 6 giugno a Bruxelles, in occasione del power breakfastHorizon Europe and the global race for innovation. What role for the next framework programme”, un evento organizzato nell’ambito dell’iniziativa “Back to the future” promossa dall’Istituto per la Competitività (I-Com) a livello europeo.

Sebbene rappresenti solo il 7% della popolazione mondiale, l’Europa spende in ricerca e sviluppo un quinto della somma globale, pari a quasi 428 miliardi di dollari nel 2017. Una cifra cresciuta costantemente nel tempo (a un tasso del 5,1% medio annuo), che tuttavia rappresenta solo poco più del 2% del prodotto interno lordo, meno delle altre principali economie mondiali come, ad esempio, la Corea del Sud, che registra un incidenza più che doppia. Il problema dell’Unione europea è sempre lo stesso: esiste un’enorme eterogeneità con punte di eccellenza da un lato – si pensi alla Svezia che investe il 3,3% del proprio pil in attività di ricerca e innovazione – e dall’altro Paesi che faticano, come la Lettonia, con solo lo 0,5% del proprio reddito destinato all’innovazione.

La stessa situazione si riscontra quando si guarda alla presentazione e registrazione di brevetti. Sono 285.000 quelli complessivamente ottenuti dall’Unione, solo 144 per ogni mille ricercatori. Una soglia, quella raggiunta, ben al di sotto di quella del Giappone con 423 e della Corea con 343, ma anche della Cina (203), che si pone ormai allo stesso livello degli Stati Uniti (208). Anche qui, se c’è chi fa da traino – come il Lussemburgo (777) – non mancano le zavorre: ad esempio, il Portogallo registra solo 10 brevetti ogni mille ricercatori.

I ricercatori europei, invece, sono più produttivi sul piano delle pubblicazioni scientifiche: ciascuno ha prodotto, in media, quasi 4 lavori di rilevanza scientifica, per un totale di oltre 7.000 pubblicazioni. Si tratta di lavori di un certo rilievo per la comunità scientifica, come testimonia la loro incidenza tra gli studi più citati a livello globale: il 14% per l’Unione europea. Meglio fanno solo gli Stati Uniti, col 16,4%.

Infine, l’Europa si conferma principale esportatore di prodotti high-tech, per un valore di oltre 616 miliardi di dollari nel 2016, quasi un terzo del totale mondiale. Sicuramente sono molti i punti di forza del sistema di innovazione del Vecchio continente, ma altrettanti sono anche quelli di debolezza, verso i quali si auspica che il nuovo Programma quadro – che prevede uno stanziamento di 100 miliardi di euro – rivolga buona parte della sua attenzione.

Research Fellow dell'Istituto per la Competitività (I-Com). Laureata all’Università Commerciale L. Bocconi in Economia, con una tesi sperimentale sull’innovazione e le determinanti della sopravvivenza delle imprese nel settore delle telecomunicazioni.

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